LA MODA SOSTENIBILE

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LA MODA SOSTENIBILE

Il coronavirus e le sue conseguenze ci hanno costretto a rivalutare tanti comportamenti che erano ormai entrati di prepotenza nella nostra società, senza tenere conto delle eventuali conseguenze. È ormai chiaro che il benessere dell’occidente ha un prezzo alto per il resto del globo.
Credo che dovremo ridare voce e contenuto alla parola ETICA, che dovrà, pena la nostra sopravvivenza, guidare i nostri passi in ogni campo e a tutti i livelli.
A questo proposito mi permetto di segnalarvi questo articolo che, aldilà di ogni colore politico, mi sembra debba attirare giustamente la nostra attenzione. Forse dovremo rinunciare a qualcosa, ma penso ne valga la pena.

La maglietta made in«Tu muori. Io vivo»
“Quando i negozi di abbigliamento riapriranno, bisognerà pensarci bene prima di tornare ad acquistare un pantalone, una gonna o una camicia che solleticano il nostro desiderio di seguire la moda. Soprattutto, bisognerà considerare a chi vanno i nostri soldi. Se fino a ieri dietro a certi capi poteva esserci uno sfruttatore, con l’arrivo della pandemia c’è anche l’abbandono dello sfruttato. Da quando è iniziata l’emergenza Covid-19, Clean Clothes Campaign, network che dal 1989 si batte per migliorare le condizioni di lavoro nell’industria globale dell’abbigliamento, monitora attraverso un blog ciò che accade giorno per giorno nel mondo dell’industria del tessile e delle confezioni. Ci sono grandi catene che per vendere da noi capi a medio/basso costo (quasi sempre di equivalente media/bassa qualità) li fanno produrre in paesi dove il lavoro costa un’inezia. È un sistema che fa utili basandosi su un doppio sfruttamento: quello di lavoratori disposti a tutto per sopravvivere, quello che soddisfa piccoli desideri di altri lavoratori alle prese con salari stiracchiati. Nelle fabbriche del Myanmar, Bangladesh, Pakistan, Cambogia, Indonesia, Thailandia, India sono soprattutto le donne a tagliare e cucire quello che noi indossiamo e spesso lo fanno senza tutele né le basilari norme di sicurezza. I colossi del fashion realizzano così margini di guadagno per nulla marginali. Per fare un esempio, la Inditex (che controlla fra gli altri i marchi Zara e Mango) nel 2018 ha generato una cifra d’affari di oltre 26 miliardi di euro, nei primi 6 mesi del 2019 dichiarava un utile netto di 1,55 miliardi con un aumento del 10% rispetto all’anno prima. Ma ci sono anche H&M, PVH (Calvin Klein, Tommy Hilfiger, Heritage Brands), Mark and Spencer, Next, Tesco, Sainsbury’s, Asda, (controllata da Walmart) Asos, Boohoo, Primark, C&A. Che cosa hanno fatto tutti questi giganti appena è arrivata la crisi della pandemia e sono stati costretti a chiudere i negozi? La cosa più facile per il loro business: annullare ordini, non ritirare merce già prenotata, acquistarla imponendo ribassi vergognosi. In un articolo del 3 maggio, il Daily Star ha denunciato come gli acquirenti stiano imponendo condizioni capestro secondo un principio riassumibile con «Tu muori, noi viviamo». Nel pezzo si dice che la britannica Debenhams vuole pagare solo 7 dei 27 milioni di dollari che dovrebbe a 35 fabbriche del Bangladesh per la merce già ritirata. Le conseguenze sono: fabbriche produttrici insolvibili, licenziamenti collettivi, salari non versati. Public Eye, ong con sede a Losanna che da 50 anni combatte le cause della povertà nel mondo, lancia un appello, sottoscrivibile sul sito, a tutte le imprese della moda e ai grandi rivenditori di non scaricare il peso della crisi sanitaria sulle operaie che stanno alla base della loro catena di approvvigionamento. Domandano di non annullare gli ordini, che le lavoratrici non siano licenziate, che i salari vengano regolarmente pagati, che le norme sanitarie siano rispettate sui luoghi di lavoro e che, quando la pandemia sarà finita, si smetta di sfruttare i poveri per fare profitti. La nostra piccola vanità può decidere la sussistenza di una persona. C’è qualcosa di profondamente sconcio in ciò. Qualcuno si dirà: «Non è colpa mia, ma del sistema. Io sto solo scegliendo una maglietta». Già, ma un sistema è fatto di granelli, tanti granelli fanno tanta polvere, tanta polvere fa una montagna e quindi la nostra maglietta fa parte dell’ingranaggio. Sarebbe meglio avere meno magliette, ma migliori. Anche i nostri armadi ne sarebbero felici.”

Tutti noi dobbiamo fare i conti con il portafoglio, soprattutto in questo momento, ma ricordiamoci che quello che risparmiamo da una parte lo paghiamo il doppio in inquinamento e quindi salute, e impoverimento del nostro paese e delle nostre risorse.

Mariangela Mianiti (IL MANIFESTO DEL 6.5.20)

https://ilmanifesto.it/la-maglietta-made-in-tu-muori-io-vivo/

 

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